Uscito sul Quotidiano del Sud - Edizione di Salerno il 19-11-2020
Pagina culturale
L
a scomparsa per suicidio di un amico, qualche mese fa, mi ha indotto a cercare qualche libro su questo tema. Nel prendere tale decisione, coltivavo una sorta di inquietudine. Spesso empatica coi libri che leggo, mi dava un po’ di ansia intraprendere una lettura di questo tipo. E poi io volevo capire ciò che poteva essergli successo, non scavare dentro di lui, non so se mi spiego, e temevo che un testo sul suicidio mi inducesse a farlo.
Ma ormai avevo deciso, dovevo documentarmi su quello che la nostra società cattolica ancora oggi considera quasi uno scandalo: un doppio reato, contro la vita e contro Dio.
Dopo breve ricerca su Internet, la mia scelta ricade su Svegliami a mezzanotte, di Fuani Marino, edizioni Einaudi.
Libro autobiografico.
L’autrice, il cui nome di battesimo deriva dall’unione di quello dei genitori, Furio e Anita, a trentadue anni in una mattina di luglio come tante, si lancia dal quarto piano di una palazzina, volendo a tutti i costi morire.
La signora Nuccia, che abita al secondo piano, alza lo sguardo dalla Tv e vede volare un sacco nero. Si chiede chi osi lanciare dal terzo o quarto piano un sacco di spazzatura.
Quel sacco non è spazzatura, è Fuani.
Ha una figlia partorita da pochi mesi, una storia di disturbo bipolare alle spalle, e una attuale depressione post partum che ha provato a segnalare come grave, ma di fronte alla quale nel tentativo di occultare, si è minimizzato.
‘E poi sono caduta ma non sono morta…’
Il fatto è che è volata lentamente, tanto lentamente da restare cosciente e poi ricordare quel volo, le urla, le voci dei familiari, tutto, ma non è morta, e ha dovuto poi vivere per quattro mesi l’inferno della rianimazione prima, di reparti di ospedali e cliniche private e centri di fisioterapia dopo, perché poliincidentata e fratturata. Naturalmente, le cure e gli interventi chirurgici di cui avrà bisogno non durano solo quattro mesi, ma anni.
Insomma, una ferita vivente, una specie di Frida Kahlo, con un braccio appeso, un pezzo di intestino in meno, una vita da riorganizzare sulle macerie di questo assurdo suicidio fallito. Un passato da ripercorrere a ritroso, cominciando dall’incontrare la Fuani neonata, che per ribellarsi inarcava la schiena. Poi la Fuani bambina, che iniziò sì come tutti i bimbi il suo svezzamento, ma lo completò solo molti anni dopo, ormai adulta.
‘Ma è difficile liberarsi del bambino che siamo stati. La nostra infanzia ci insegue e condiziona. E se non è stata felice, anche dopo molti anni continua a urlare vendetta.’
Una donna per sua sfortuna estremamente intelligente e molto viva nonostante tutto, che narra di essere vissuta nel caos, perché in casa loro stazionavano un gran disordine, e libri e giornali dappertutto.
‘Si può dire che nei primi anni della mia vita io abbia letto molto per osmosi’.
‘Dai miei non c’erano né riti né regole, e forse per crescere sani servono entrambi’.
‘Si odiavano, i miei genitori, o comunque non provavano alcun piacere nello stare insieme. Mi sono nutrita di tensioni’.
‘Non c’è mai stata tra me e mio padre quella tenerezza che spesso caratterizza il rapporto padre e figlia. Il mio punto di riferimento è sempre stato mia madre, che però non mi ha tenuto testa. Il mio carattere dispotico lascia agli altri poco spazio di negoziazione’.
‘ Ho sempre avuto una predilezione per i casi clinici, ancora prima di diventarlo io stessa’.
Così si racconta Fuani, Fuani donna colta (il libro ha una ricca bibliografia), che sa di se stessa quanto affermato da Freud e lo riporta: ’Questi malati sono distolti dalla realtà esteriore, ed è per questo che su quella interiore ne sanno più di noi e possono rivelarci cose che senza il loro aiuto sarebbero rimaste impenetrabili… La loro tendenza alla stagnazione e alla distruzione, esprime la tendenza di ogni essere vivente a ritornare allo stato inorganico originario. Come se la morte potesse rappresentare il fine ultimo dell’uomo, non privo di sollievo rispetto all’agonia della vita’.
Tra gli altri, menzionato anche Piero Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta:
‘Tutti, in un modo o nell’altro, chi più chi meno, siamo suscettibili di scivolare in quel piano inclinato della sofferenza psichica. Insomma, siamo tutti potenzialmente matti, perché tutti potenzialmente indisponibili ad accettare le circostanze storiche in cui viviamo, tutti potenzialmente e intimamente disperati’.
Da quel 26 luglio, dalla caduta (che lei definisce e chiama sempre così per sottolineare che non è stato solo precipitare al suolo, ma il cadere dell’esistenza, che lì si è come interrotta) inizia un nuovo viaggio nel dolore (in forma diversa e aggiuntiva rispetto a prima), nella maternità colpevole, nel girovagare della psichiatria, nei continui martellanti interrogativi…
Un libro tosto questo qui, ma non solo nel senso che si può immaginare. Tosto perché profondamente sincero ed onesto. Ti mette la sofferenza sotto agli occhi e te li spalanca per fartela vedere e ti impedisce di girarti dall’altra parte.
‘Perché quando uno muore per suicidio, di lui non si dice mai, come per altre malattie, morto dopo lunghe sofferenze?’
Pure non è un libro di solitudine, perché lei sa e riferisce di essere in buona compagnia. Continui infatti i riferimenti alla letteratura ‘del suicidio’, col suo popolo di Sylvie Plath, Cesari Pavese (che scriveva nel suo biglietto d’addio: “Non fate troppi pettegolezzi”), Sareh Kane, Vincent Van Gogh, Monicelli, Levi.
Ma è pur vero che ‘I pazienti psichiatrici difficilmente solidarizzano gli uni con gli altri e quando si incontrano in sala d’attesa, per discrezione abbassano gli occhi’.
Un libro generoso, infatti all’autrice era stato chiesto di usare uno pseudonimo, per cautelare se stessa e la figlia bambina (nonché la donna che diventerà), ma Fuani ha il coraggio e la determinazione di denudarsi e non nascondere la verità.
‘In ogni caso la verità, prima o poi, sarebbe venuta a galla. E allora, tanto valeva che a raccontarla fossi io’.
Un libro definito politico, per lo sforzo di inclusione di una condizione di molti, condizione estremamente sottaciuta dalla società, che a 39 dalla morte di Basaglia ancora esclude, ancora è capace di affermare… ‘ha commesso un suicidio’, usando lo stesso verbo che si usa per i delitti.
Un libro che per sottolineare quanto sia importante la prevenzione della depressione post partum, auspica che la priorità sia la salute mentale della madre e non l’allattamento al seno.
Quindi un libro senza veli, dove lucidamente si ribadisce che dalla malattia mentale si può non guarire mai. Dal tentativo di suicidio, meno che mai, e Fuani lo sa bene, lei che non è morta ma ha dovuto vivere in prima persona il suo stesso lutto.
‘Il mio lutto ero io’.
‘Sono affetta da una malattia che implica sempre una traversata nel dolore’.
Eppure…
‘Mi chiedo se il suicidio possa rappresentare un diritto, per chi sperimenta un dolore prolungato’.
A concludere: il libro non è dedicato a una persona, ma a un farmaco, Lyrica, che nelle fasi cruciali del post caduta, ha molto aiutato Fuani, distendendole i nervi e dandole il conforto del sonno.
Dunque nessuna dedica a persone, ma in chiusura del libro una lettera alla figlia Greta.