Uscito sul Quotidiano del Sud - Edizione di Salerno il 22-08- 2021
E
ccolo qui Gino Strada, che da grande voleva fare il musicista o lo scrittore, e invece ha fatto il chirurgo di guerra e soprattutto il ‘chirurgo umano’. Per costoro, il dolore dell’uomo diventa il proprio dolore, tale è il concetto di chirurgia umana.
In questo suo libro del 1999 (vincitore del premio Viareggio Versilia), che continua ad avere tanti lettori, c’è descritto l’orrore che Gino ha combattuto per tutta la vita insieme al suo popolo di Emergency, che nasce nel 1994 per la riabilitazione delle vittime di guerra e delle mine anti-uomo, dette pappagalli verdi. Bombe a grappolo di origine sovietica (ma non sono stati solo i sovietici a lanciarle) che vengono seminate dagli elicotteri o da granate e razzi di artiglieria. Eccolo qui Gino Strada, che da grande voleva fare il musicista o lo scrittore, e invece ha fatto il chirurgo di guerra e soprattutto il ‘chirurgo umano’. Per costoro, il dolore dell’uomo diventa il proprio dolore, tale è il concetto di chirurgia umana.Eccolo qui Gino Strada, che da grande voleva fare il musicista o lo scrittore, e invece ha fatto il chirurgo di guerra e soprattutto il ‘chirurgo umano’. Per costoro, il dolore dell’uomo diventa il proprio dolore, tale è il concetto di chirurgia umana.Eccolo qui Gino Strada, che da grande voleva fare il musicista o lo scrittore, e invece ha fatto il chirurgo di guerra e soprattutto il ‘chirurgo umano’. Per costoro, il dolore dell’uomo diventa il proprio dolore, tale è il concetto di chirurgia umana.
In questo suo libro del 1999 (vincitore del premio Viareggio Versilia), che continua ad avere tanti lettori, c’è descritto l’orrore che Gino ha combattuto per tutta la vita insieme al suo popolo di Emergency, che nasce nel 1994 per la riabilitazione delle vittime di guerra e delle mine anti-uomo, dette pappagalli verdi. Bombe a grappolo di origine sovietica (ma non sono stati solo i sovietici a lanciarle) che vengono seminate dagli elicotteri o da granate e razzi di artiglieria.
Ha avuto sempre la fissa di combatterli i pappagalli verdi, Gino, in quanto armi mostruose capaci di procurare morte e smembramenti anche molti anni dopo, laddove i popoli degli ‘ultimi’ dovendo per forza seminare zappare coltivare la terra per continuare a vivere (economia di sussistenza), hanno la sfortuna(?) di imbattersi in uno di loro. Per forza! I posti dove sono maggiormente disseminate le mine con le loro ali di plastica verdi, che le rendono simili a giocattoli, sono i cortili, i campi, le sorgenti d’acqua e i cimiteri, dunque i luoghi più necessariamente frequentati. Nei cimiteri gli sminatori il lavoro se lo contendono, che è sì pericoloso, ma redditizio per via del recupero dell’alluminio.
Nella bellissima prefazione del libro, volendo rimarcare lo spirito bellicamente anti-bellico di Gino, Moni Ovadia di lui dice che è un uomo di poche idee, forse una soltanto: risarcire l’uomo ferito e menomato dalla violenza dei suoi simili.
‘Le mine anti-uomo, paradigma di viltà, strumenti di morte proiettati nel futuro delle giovani generazioni che prediligono i bambini perché sono il futuro delle genti, vengono progettate da insospettabili uomini d’affari. Questi fiori metallici dall’infinita infamia umana lacerano, accecano, sbrindellano, cancellano parti di vita… Nel suo libro Gino ci racconta ciò che fa e ciò che fa è così universale, folle e insieme normale. Ci sono impensabili luoghi di rivoluzione. Uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada’.
Dunque quest’uomo che credo avesse nel suo DNA il gene della pace, non solo studiò chirurgia di guerra, ma formò attraverso la sua onlus tanti medici giovani e meno giovani, tutti estremamente motivati a cucire carni e vite, laddove la crudeltà dell’uomo le aveva smembrate. Ricordiamo che l’Italia è stata tra i principali produttori di mine anti-uomo e Gino non la finiva di gridarlo, sino a che il governo italiano il 22 ottobre ’97 approvò la legge 374 che impedisce la produzione e il commercio di questi ordigni. L’accordo vide il rifiuto di 36 Stati, comprese le super-potenze USA, Russia, Cina, India, Pakistan.
La mia curiosità di sfogliare i libri prima di leggerli, così, per toccarli, annusarli, farci amicizia, ha fatto sì che io decidessi come prima cosa di leggere l’ultimo capitolo, avendo scoperto che è dedicato a sua moglie Teresa. E bene me ne è venuto, perché mi ha disposto alla lettura piena di grata dolcezza. Gino si rivolge a lei con profondo amore ed afferma di volerle fare questa dedica non all’inizio, come si usa, ma alla fine, per significare che tutto quello che nella sua vita ha fatto, lo ha fatto grazie a lei e al suo sacrificio. Secondo lui il libro lo ha scritto lei ‘lasciandomi scorrazzare per il mondo, lasciando che togliessi a lei e a nostra figlia tempo, dedizione, sostegno e perché no anche amore. Lo ha scritto lei, sopportando di non sentirmi anche per mesi pur sapendomi in zone di guerra, sobbarcandosi da sola l’educazione di una figlia e i cento guai di una famiglia, aspettando i miei ritorni, ascoltando ogni volta le mie preoccupazioni, coccolando i miei sogni e le mie follie. Io che ero lì a preoccuparmi di gente strana, col turbante o con gli occhi a mandorla, di bambini altrui, di sconosciuti che ho curati perché andava fatto, ma forse, innanzitutto, per la mia personale soddisfazione. A qualcuno sarà stato utile. Che cosa io abbia guadagnato non lo so, so di certo che cosa ho perso. Per questo non ho mai smesso di sentire dentro un po’ di tristezza, tanta nostalgia, un sacco di rimorsi. Spesso mi sono sentito un ladro, un truffatore. Avrei dovuto essere vicino a lei, darle amore e aiuto, partecipare ai suoi problemi, insomma esserci’.
Con quanta umiltà l’autore ci consegna l’uomo e le sue insicurezze. Ha le occhiaie e lo sguardo triste, Gino, come di chi ha tanto sofferto e visto soffrire, ed anche se sorride, il sorriso deve prima scavarsi la strada attraverso le lacrime.
Nei numerosi piccoli capitoli del libro, ci parla del suo cammino degli ultimi dieci anni in luoghi di guerra diversi. Afghanistan, Somalia, Iraq, Cambogia, Sudan. La fatica, i dubbi, l’insonnia notturna, e sempre l’incontro con un ‘ultimo’, cui lui e i suoi hanno tentato di tendere una mano. Spesso ci sono riusciti, altre volte no. Sempre però si è trattato di attraversamenti di vita importanti, di quelli che lasciano una traccia indelebile, anche se può sembrare che non te li ricordi più.
Come quella volta che in un piccolo paese al confine tra Iran ed Iraq incontra di nuovo, dopo qualche tempo, Ashad, che ha perso una gamba mentre riportava a casa le sue due mucche. Quando vide la mina, ormai ci era sopra, troppo tardi. Ashad gli viene incontro camminando tutto curvo. Si è parecchio allungato, e le sue stampelle sono diventate corte. La prima cosa che fa, è chiedere quando i medici manterranno la promessa. Vuole fare riabilitazione. Come spiegare a un ragazzino quanto è difficile raccogliere soldi per un progetto di riabilitazione. Ma gli occhi di Ashad Gino non riesce a toglierseli dalla testa, così come prima cosa tornando al suo alloggio invia un fax alla sede di Milano di Emergency. Dopo il fax crolla addormentato. Prima però ha fatto in tempo a pensare quanto la sua richiesta a Milano sia folle e sconsiderata. Diranno come sempre che è un pazzo, che non si può chiedere soldi per un nuovo progetto, quando i progetti precedenti ancora aspettano.
Mariangela, amministratrice senza stipendio, il giorno dopo sbufferà leggendo le sue assurde richieste, ma forse prima di sera stapperanno una bottiglia per brindare ad Ashad e alla possibilità che gli danno, sollevando altri soldi da chissà dove.
Come quella volta che lavorava all’ospedale di Quetta, in Pakistan. Quaranta letti tutti sempre occupati e la porta come quella di un saloon. Si è in una sera di dicembre. Esce dall’ospedale insieme all’anestesista, con l’intento di andare insieme a farsi un piatto di pasta, che per girovaghi dell’estero in guerra come loro è la cosa che più concilia la conversazione. Dopo pochi chilometri qualcosa a lato della strada attira la loro attenzione. Forse un corpo umano che si muove, ma ha la testa chiusa in un sacchetto di plastica, stretto col laccio di una fleboclisi. Freneticamente, liberano un ragazzino scoprendo di conoscerlo. E’ stato operato in ospedale pochi giorni prima. Ha gli occhi bendati, perché ha perduto l’uso della vista. Se non vede, come ha potuto da solo attuare un tentativo di suicidio così tremendo? Forse qualcuno lo ha aiutato?
Sicuramente di fronte a tutto quel buio avrà pensato di non voler più vivere. Lo riportano in ospedale. Invece Gino porta nella sua stanza l’incubo di quella testa riccia fasciata da un turbante di garze, mentre pensa:
‘Lui non può vedermi, né io sarei in grado di sostenerne lo sguardo.’
A Emergency vanno i diritti d’autore del libro.
norma d.