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John Fante

Uscito su Mediavox Magazine il 13-09-2024

 

‘Le parole mi sarebbero venute come gocce di sangue dal mio cuore’

Ma chi è John Fante, che per resistere alla povertà e diventare scrittore dové adattarsi ai lavori più umili e usuranti. Resistere, resistere, credendoci sempre, da quando, ragazzo, decise che avrebbe dedicato alla scrittura tutta la sua vita.

Secondo Niccolò Ammaniti, gli scrittori possono essere da prateria o da tana. Ebbene, Fante sarebbe uno scrittore da tana. Lui le praterie le vede, ma spiandole nascosto nei cunicoli della terra, come un coniglio solitario.

Lui “sa raccontare un piccolo mondo familiare, un paesino striminzito dal freddo, con la stessa grandezza con cui Omero racconta le gesta dei greci e dei troiani.” Intanto, è un autore aderente a un genere letterario etnico-familiare, che sempre leggo e rileggo con struggente piacere. Il principale scrittore, se non il solo, che mi fa fare un giro nella mia famiglia, e mi fa sentire profondamente figlia ( prima di lui non mi ero mai accorta di quanto lo fossi e volessi esserlo).

Un americano vissuto per lo più a Los Angeles, ma nato nel 1909 a Denver (Colorado), primo di quattro fratelli.

Ogni volta che ne nasceva uno, suo padre si prendeva una ubriacatura di tre giorni, ma non era per felicità.

Dunque un americano ma “con la coda rimasta impigliata ancora in Italia. Come un salmone mezzo mostro d’amore” (Vinicio Capossela, suo grande estimatore). Infatti il padre Nick, ispiratore della maggior parte delle sue opere, era un muratore di origini abruzzesi, dove “la miseria era spettacolare come i ghiacciai circostanti”. “Pane e cipolle, pane e cipolle, si vantava, cos’altro serve a un uomo? Ecco perché per tutta la vita ho provato ripugnanza per le cipolle… -scrive John.

Lui era qualcosa di più che il capofamiglia. Era giudice, giuria e carnefice.”

Anche la sua ipercattolica mamma Mary, nata a Chicago, aveva genitori italiani, di preciso lucani.

Nick Fante, tipo basso dalle mani tozze e il grande naso, che aveva dato in eredità alla prole le sue caratteristiche fisiche, a partire da quella sua statura da “idrante”, viene definito dal figlio un muratore d’eccellenza ed anche straordinario falegname, stuccatore e cementiere, ma uomo inaffidabile, collerico, violento e dedito a tutti gli eccessi compreso quello del gioco e dell’alcool. Non avrebbe mai dovuto sposarsi, giacché sempre pronto a inseguire una nuova gonnella. E’ lo Svevo Bandini del romanzo d’esordio di John ‘Aspetta primavera Bandini’ (1952), e, 25 anni dopo, il protagonista de ‘La confraternita dell’uva’ (1977).

Libro, quest’ultimo, che reca come dedica alla moglie:

“A Joyce, naturalmente”.

Nel primo, alter ego di Fante è Arturo Bandini; così pure, ne ‘La confraternita’, il quarantenne Henry Molise.

Pur essendo legatissimo alla madre, al buon cibo che essa cucinava regolarmente, sottoponendosi a umilianti richieste di credito nei periodi di magra (di solito quelli in cui il marito allegramente si allontanava con un’altra donna lasciandoli completamente senza sostentamento), Fante nella sua vita di scrittore sarà eternamente ispirato dalla figura paterna, che gli dà occasione di parlare di famiglia e soprattutto del ruolo di figlio preda un giorno sì e uno no di istinto parricida, pur se al contempo soggiogato dalla possente figura genitoriale. Nick, povero da non aver mai conosciuto banche, ma che nemmeno ne voleva conoscere, aderendo alla “sensualità” del rotolo di banconote in tasca…

Specialmente, scrivendo, Fante potrà insorgere a parolate contro lo sconsiderato padre.

A noi, dall’altra parte a leggerlo, lui restituisce il senso del radicamento nelle nostre storie. Fa guardare a un tipo di litigio familiare come a un possibile collante del quotidiano. E ancora:

“Scioglie il nodo del risentimento, ti permette di abbracciare i tuoi vecchi nella loro disgraziataggine, nel decadimento, nella miseria. I maccheroni riscaldati con le bestemmie. Il velo di caglio ossidato, iridescente del tè senza limone delle mie colazioni d’infanzia” (Vinicio Capossela).

Principale capolavoro di John Fante, viene considerato il libro ‘Chiedi alla polvere’, ma le lacrime, le risate, i cazzotti allo stomaco, a me li ha dati la scrittura muscolare, a tratti grottesca ma sempre profonda de ‘La confraternita dell’uva’ ( compagni che diventano confratelli di sofferenze e bevute, tutti abbeverati alle tette dell’uva). Un libro dove Fante, con un colpo di genio, “proietterà sul padre Nick i sintomi di quel diabete che a partire dal 1974 gli avrebbe procurato le più atroci sofferenze, comprese la cecità e l’amputazione delle gambe, contagiando della sua stessa malattia il fantasma del padre…” (Emanuele Trevi).

Assistito fino alla fine dall’inseparabile moglie Joyce, cui quando divenne cieco dettava i suoi libri, Fante muore a 74 anni l’8 maggio dell’83. E’ da poco uscita la ristampa del suo primo libro ‘Aspetta primavera Bandini’, dove in una breve nota lui recita quello che viene considerato un po’ il suo testamento:

“Tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi, si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina.”

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