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Lettera a mio padre: il J’accuse di Kafka

Uscito su Resistenze quotidiane il 2-12-2024

 
D ifficile leggere di un conflitto padre-figlio più tremendo di quello che si sviluppò sin dall’infanzia tra Franz Kafka e suo padre Hermann e durò praticamente tutta la vita. Come un dente di serpente questo conflitto perforò le viscere dello scrittore fino a salire in superficie, dove emerse con lucidità stupefacente. Franz uomo e letterato ne parlò apertamente ed arrivò, nel 1919, a scrivere al padre questa lettera, pubblicata postuma solo nel 1952.
All’epoca aveva 36 anni, e da un anno aveva contratto la tubercolosi. La sua angoscia per la prospettiva di una morte prematura, gli consentì di essere sincero fino in fondo.
In realtà pubblicate postume furono la maggior parte delle sue opere. Aveva indicato di bruciarle dopo la sua morte, ma il suo desiderio non fu rispettato dall’amico, nonché esecutore testamentario e biografo, Max Brod, che le salvò dal fuoco.
La ‘formula’ della lettera gli era congeniale. Gli piaceva scrivere ‘da distante’. Ne scrisse centinaia, rivolte ai suoi familiari, in special modo a sua sorella Ottla, al padre, alla sua fidanzata Felice Bauer, agli amici più stretti.
La lettera al padre, paradigma di tutte le sue opere, risulta non spedita ma solo affidata alla madre. Si tratta di una lunga lettera ‘liberatoria’ in termini verbali ed anche psicoanalitici in cui Kafka analizza, risalendo la corrente del rapporto col padre ed anche della loro storia familiare, i perché del loro reciproco detestarsi ed infliggersi colpi che nella carne dell’altro continuarono per tutta la vita a sanguinare, perché per quelle ferite non ci fu mai balsamo ed anche quando Franz divenne scrittore, la tardiva approvazione genitoriale in cui tanto aveva sperato, non arrivò.
Anzi, da allora si realizzarono sofferenze aggiuntive. Gli consegnava un suo libro? Eccolo lì a giocare a carte, oppure dire distratto:
“ Mettilo sul comodino.”
Aveva forse Hermann compreso che i libri erano l’unico luogo in cui suo figlio poteva affrancarsi dalla sua autorità?
Dove poteva realizzare un capolavoro come il testo Metamorfosi, grande allegoria sull’incomunicabilità tra gli uomini e la loro alienazione?
Abile commerciante di articoli di moda originario della Boemia del nord, era un uomo sicuro di sé, sia per essersi fatto da solo che perché affabile comunicatore. Col tempo arrivò anche ad avere impiegati al suo servizio. Di tale attività Franz non volle mai interessarsi. Lui lo lasciò libero di scegliere la sua strada, e dopo aver pensato in un primo momento di fare il chimico, Franz decise poi di iscriversi a Giurisprudenza.
Hermann gli fece sempre pesare il fatto che coi suoi sacrifici gli aveva dato l’opportunità di fare una vita migliore della sua. Quello che Franz afferma al riguardo invece è che il padre si comportava come una persona che dice all’altra Vai, ma mentre lo dice non le lascia la mano. Inoltre:
“Io potevo usufruire di quanto mi davi, ma solo con un senso di vergogna, stanchezza, debolezza. Per questo potevo esserti grato, per tutto, ma solo come un mendicante, e non con l’azione”.
A detta di Franz il genitore sapeva il fatto suo, lo sapeva talmente bene da avere estrema padronanza nel trattare e fare. Tutto però doveva ruotare attorno alla sua bravura e al suo ego, non esisteva possibile contraddittorio. La sua prosopopea, la sadica ironia esercitata sui figli, in primis sull’unico figlio maschio, volta a sminuire ogni sua qualsivoglia azione, risultarono oltremodo frustranti sullo sviluppo della personalità del bambino/ragazzo prima, e dell’uomo poi, generando una sindrome di Telemaco senza rimedio.
Facile che si chiudesse in totale mutismo, aprendosi solo quando lontano da casa. Ma anche da lontano, Hermann incombeva.
“Dalla sua sedia a dondolo lui governava il mondo”.
Un episodio raccontato da Franz nella lettera, risulta più eloquente degli altri: quello in cui, aveva allora solo 5 anni, una notte manifestò insistentemente il ‘capriccio’ di volere un bicchier d’acqua.
Ebbene, dopo averlo più volte redarguito, il padre si alzò non per prenderglielo, ma per punirlo mettendolo sul ballatoio fuori la porta di casa e lasciandolo lì al freddo in camicia da notte.
Questa feroce punizione fu devastante per Kafka, che non riuscì mai più a dimenticarla, talché la paura che ne scaturì animò nel suo cuore e nella sua psiche molte inquietudini a venire.
E forse fu proprio per spiegare al padre il perché delle sue tante paure, che decise di scrivergli questa lettera, anche se afferma che “le sue paure si fondano su una quantità tale di dettagli che è difficile anche solo tentare di coordinarli”…
Sta di fatto che di fronte al padre , Franz figlio annichiliva.
Contribuiva a questo annichilimento anche il fatto di essere esile, mingherlino, laddove invece suo padre era fisicamente imponente. Quando andavano al mare e in cabina toccava svestirsi l’uno accanto all’altro, Franz avrebbe voluto ogni volta scomparire. I muscoli del padre gli apparivano in tutta la loro possanza.
“Già in cabina mi sentivo miserabile, e non solo di fronte a te, ma di fronte a tutto il mondo, perché tu per me eri la misura di tutte le cose”. Accadeva allora, talvolta, che Franz inventasse una scusa per spogliarsi più tardi da solo. Ciò lo faceva sentire rinfrancato, ma durava niente. Ecco in arrivo il ghigno beffardo di suo padre a denigrarlo per rinfacciargli quella vigliaccheria prontamente intuita. Egli si rifugiava dalla madre, ch’era dolce con lui, ma anche in perfetta armonia col marito, il che, pur essendo un buon esempio per i figli, ancora una volta relegava Franz in una posizione d’inferiorità. Col passare degli anni l’amore e l’intesa tra il padre e la madre ebbero ulteriormente ad accrescersi.
Questo esempio ‘inarrivabile’, Franz spiega come secondo lui fu la causa del non riuscire mai a sposarsi, pur desiderandolo tanto ed essendoci andato vicinissimo due volte. Ciascuna volta, batté in ritirata, e non per volere delle fidanzate, ma per sua totale inadeguatezza riguardo a una scelta così importante come quella del matrimonio. L’esempio dato da suo padre, e sua madre, era del tutto ineguagliabile e lo avrebbe visto sempre perdente.
Quello stesso padre dedito al lavoro, alla moglie, alla famiglia, gli faceva vivere però un doloroso vuoto affettivo. Era un ottimo uomo d’affari e un buon marito, ma crudele con lui e i dipendenti. Fu anche per il timore di replicare questa crudeltà che Franz rinunciò a sposarsi ed avere figli.

Si sentiva una nullità, e laddove da piccolo reagiva facendo lo scontroso, il disubbidiente, sempre intento a fuggire per chiudersi in sé stesso, da grande invece il suo riparo diventò l’indifferenza. Avvertiva sempre di più dentro di sé quanto l’indifferenza potesse essere uno scudo salvifico contro la sofferenza. Ma era anche uno scudo tra lui e il fare, lui e la progettualità, le passioni, e fece di lui un uomo irresoluto, se non per la scrittura.
Di rimando, il padre di fronte a questo atteggiamento, lo rimproverava di essere freddo, distante, ingrato. E tutto questo senza mai mettere in discussione il suo operato. A detta di lui la sua sola colpa era quella di essere troppo buono.
E invece: ”Come padre eri troppo forte per me, soprattutto in considerazione del fatto che i miei fratelli sono morti in tenera età e le mie sorelle sono giunte molto tempo dopo, ed io ho dovuto parare il primo colpo tutto da solo, ed ero davvero troppo debole per farlo.”
Una debolezza che visse come un marchio per tutta la vita, e lavorò in lui soprattutto nell’adolescenza, quando per ogni entusiasmo che faceva capolino, c’era subito una risposta paterna fatta di giudizi e pregiudizi nati per colpirlo. In aggiunta, insulti e calunnie su qualunque persona, amica o conoscente, che a Franz piacesse o che iniziasse a frequentare.
“Chi va a letto coi cani, si alza con le pulci!”.
Una tempesta di insensati improperi che convergevano tutti verso la stessa frase conclusiva:
“Fa’ quel che vuoi, io ti lascio libero!”.
Per non parlare di ciò che accadeva a tavola. Suo padre aveva un appetito robusto, che gli consentiva di mangiare tanto e anche a grossi bocconi e anche ciò che era ancora molto caldo, naturalmente desiderando che il figlio lo eguagliasse:
“Fai presto! Più alla svelta! Più alla svelta!”.
E così:
“Per l’impossibilità di un rapporto tranquillo ho disimparato a parlare. Non sarei divenuto comunque un grande oratore, ma avrei senz’altro dominato il linguaggio umano. Tu cominciasti però assai presto a togliermi la parola. La tua minaccia “Non una parola di replica!” e la relativa mano alzata, mi accompagnano da sempre… La verità è che di fronte a te non sapevo né parlare, né pensare.”
“Se io cominciavo a fare qualcosa che non ti piaceva, e tu mi minacciavi di insuccesso, il timore reverenziale per la tua opinione era tale che l’insuccesso, anche se forse solo in seguito, era inevitabile”.
La frase minacciosa che Hermann gli diceva sempre quand’era in tenera età:
“ Ti faccio a pezzettini!”, gli trasmise un’altra paura, quella della castrazione, che si portò dentro per tutta la vita.
Ma il padre, insensibile, fintamente ignaro delle difficoltà del figlio, perseverò nel suo comportamento, se mai rincarando la dose. Crisi di collera, il rivolgersi a lui nominandolo in terza persona ( “vedi che vuole tuo figlio”, chiedeva a sua moglie ritenendolo indegno di parlargli), l’offendere brutalmente la figlia Elli:
“Tenete seduta a dieci metri dal tavolo quella grassona.” A tal proposito Franz riferisce che all’epoca le sue frustrazioni erano talmente profonde che in quelle circostanze s’insinuava in lui una sottile maligna soddisfazione a veder maltrattata anche la sorella.
Menziona poi nella Lettera al padre le… eccezioni. Quei rari momenti in cui anche nella loro famiglia sembrava affacciarsi per un attimo la lietezza. Descrive il sorriso del padre, particolarmente bello, l’immagine di lui per la fatica addormentato nei caldi pomeriggi d’estate al tavolino col capo sul gomito, oppure quando “tremante di pianto” si reggeva alla libreria durante quella che fu la grave malattia di sua moglie. Tale parte della lettera, ci fa percepire quanto Franz nonostante tutto fosse legato a suo padre, ma i suoi tremori sentimentali si trasformano poi in sensi di colpa per non avere amato abbastanza la sua famiglia (sensi di colpa che raggiungono il loro acme quando il padre mette in scena il repertorio delle autoaccuse).
Eppure, nonostante questi momenti di affetto, tra di loro non nacque mai una vera riconciliazione, e il più delle memorie di Franz è per ricordare le urla di suo padre, la sua faccia rossa, l’improvviso slacciarsi le bretelle, o l’espressione che adoperava spesso nei confronti di un commesso tubercolotico: ‘Deve crepare, quel cane ammalato!’.
Le difficoltà di Kafka furono non solo nel personale rapporto con lui, ma nella delusione di non poterlo prendere come modello nemmeno su altre cose. A differenza della maggior parte degli altri ebrei, ad esempio, Hermann aderiva ad un ebraismo ‘sbrigativo’, tra l’altro teorico più che pratico.
“ Andavi al tempio quattro giorni all’anno, e lì eri come minimo più vicino agli indifferenti rispetto a coloro che prendevano la cosa sul serio…”
Così l’ebraismo di Franz risultò senza radici, anche se la maggior parte dei critici concordano sul fatto che la sua scrittura ne risulti lo stesso influenzata.
Insicuro e indegno del suo stesso corpo, Franz nemmeno quello riuscì a ‘governare’. Alto ma esile sino al rachitismo, la schiena presto gli si curvò e cominciò a dolergli. Per un nonnulla perdeva la sua normale digestione, divenne ipocondriaco. La sua ossessione di non riuscire a sposarsi lo teneva sveglio di notte ed anche quando stette per farlo, la testa gli bruciava, era in preda al panico. Avvilito, senza un briciolo di autostima perché il padre se l’era presa tutta, un giorno cominciò a vomitare sangue avendo contratto la tubercolosi. A soli 39 anni dovette lasciare il suo lavoro. Provò a curarsi, ma fu inutile: la tbc gli aveva invaso la laringe, non riusciva più a nutrirsi. Fu la fine. Morì a soli 40 anni nel sanatorio di Kierling, in Austria, accompagnato dalla sua ultima fidanzata, la giovane polacca Dora Diamant. Il suo fraterno amico Max Brod non tenne fede alla sua promessa e per farlo conoscere al mondo rese pubblici i suoi scritti, anche quelli più intimi. Lo scrittore Milan Kundera lo criticò aspramente per questo, per non avere rispettato la volontà di Franz Kafka.

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