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Vincenzo Muccioli

Uscito sul Quotidiano del Sud - Edizione di Salerno il 13-01-2021
Pagina "Cultura e Società"

 
I l solo approssimarmi a scrivere di lui, mi turba. Cercherò di viaggiare nella sua vita e nel suo fare, e quindi nelle parole, usando delicatezza. Per quante volte i media lo hanno attaccato, (per affinità di accanimento mediatico mi viene in mente Enzo Tortora), ci dovrebbe essere una volta in cui ognuno di noi si rivolge a lui con gentilezza.
Circa la sua controversa storia, è già chiaro da che parte mi schiererò.
Nasce a Rimini nel 1934 e dopo il matrimonio con Antonietta, figlia di agiati albergatori, avvenuto nel 1962, per amore della vita rurale si trasferisce a Coriano, sulle colline riminesi. Lì si dedica all’agricoltura e all’allevamento di razze canine. La via di accesso al podere si chiama San Patrignano, ed è questo il nome che prende la comunità, anzi la cooperativa, da lui fondata nel 1978 per dare assistenza gratuita (e sempre gratuita resterà), ai tossicodipendenti e agli emarginati, e che Vincenzo dirige fino al 95, anno della sua morte.
Nella prima metà degli anni settanta, nello stesso luogo Muccioli si era interessato di parapsicologia, medicina naturale e anche spiritismo, in un suo gruppo detto ‘Il cenacolo’.
Nel 1985 San Patrignano diventa Fondazione, e nel 1990, in seguito all’atto di donazione da parte della famiglia Muccioli di tutti i suoi beni alla comunità, viene riconosciuta dallo Stato come ente morale.
Ma come inizia ‘l’avventura ‘ di Vincenzo Muccioli?
Inizia così. Gli accade di ospitare nella sua casa di campagna una giovane tossicodipendente, prendendola fortemente a cuore. La sua ospitalità e il suo senso paterno sono dirompenti. Il suo fisico da omaccione, le sue braccia possenti, i suoi occhi piantati negli occhi, fanno il resto. Sembra tutto scritto. In breve tempo gli ospiti diventano 30. Per empatia e intuizione, ecco nascere la comunità, in un’epoca in cui il tossicodipendente non ha reale supporto dallo stato e il suo ruolo è di forte emarginazione, abbandonato a se stesso e al suo veleno. La droga di allora, l’eroina, devasta tanti giovani trascinandoli ineluttabilmente verso l’abisso.
L’idea di Muccioli è quella di una famiglia allargata, dove si vive insieme secondo l’etica del lavoro, curandosi con ‘iniezioni di amore incondizionato’. Un folle? Un invasato? O semplicemente un padre ostinatissimo che non si ferma difronte a niente e nessuno?
Non sono previsti farmaci sostitutivi e siccome (contrariamente a quanto accade oggi a SanPa), lui accoglie anche pazienti in crisi di astinenza, usa metodi ferrei e coercitivi, informandone preventivamente sia gli interessati che le loro famiglie. Ogni ragazzo viene seguito da altri ragazzi (a volte più grandi ma non necessariamente), che se ne fanno carico nelle diverse situazioni. Il sistema dunque è verticistico. Questi metodi drastici da alcuni vengono ritenuti indispensabili, altrimenti il soggetto in crisi d’astinenza non supportato da altre droghe, sicuramente fuggirebbe per andarsi a bucare; altri invece li reputano violenti, soprattutto perché a volte messi in atto da caporeparti troppo brutali e fuori controllo.
In realtà Muccioli non ha tempo di esercitare controlli serrati, ma ha occhi ovunque, e finisce col sapere sempre tutto. Questa sua riconosciuta abilità, fa sì che gli vengano rivolte molte critiche (come fa, visto che sa tutto, a non sapere delle violenze praticate dai suoi capò?).
Tra i detrattori, anche Marco Pannella, cui non va a genio la lotta di Muccioli anche contro le droghe leggere.
Per questi metodi, Muccioli dovrà affrontare nel 1984 il primo dei 2 processi che lo vedono imputato. Quello dell’84, definito ‘processo delle catene’, documenta un’Italia spaccata in due nel giudicarlo. In quegli anni Muccioli è diventato un uomo molto potente. I sovvenzionamenti da parte dei privati (in primis quelli di Letizia Moratti e del marito, mai cessati, nemmeno attualmente), e gli introiti dovuti alle attività commerciali messe in campo dalla comunità, fanno di SanPa non solo la comunità più grande e prestigiosa d’Europa, cui guarda il mondo intero, ma anche un’azienda molto affermata.
I venti mutano col suicidio di due ospiti del centro, i quali, non sopportando più la coercizione, si lanciano dalle finestre. La stampa attacca ferocemente Muccioli. I familiari dei ragazzi rilasciano interviste con frasi accusatorie.
Io sono tra quelli che si chiedono, con tutto il rispetto per queste giovani vite che troppo presto si spensero e forse si potevano salvare: senza di lui, senza Muccioli, quanti di quei ragazzi sarebbero morti, di notte, per le strade, di overdose, quanti sarebbero finiti in carcere, quanti avrebbero vissuto di crimini e prostituzione? La risposta è: non poche unità, ma centinaia.
E poi: quanto potevano essere coercitivi i sistemi di Muccioli, se in tanti comunque riuscivano a scappare, e lui sempre li andava a cercare, a riprendere (gli accusatori le definirono spedizioni punitive), per provare ancora a salvarli.
La verità è che Muccioli rappresentava all’epoca l’unica speranza possibile per centinaia di famiglie, e fuori ai cancelli di SanPa c’erano sempre, a volte per giorni, talaltra per settimane, auto in attesa e genitori imploranti (‘Per me Muccioli mio figlio lo può anche crocifiggere, basta che gli dia una chance. Tanto, sta meglio per strada? Meglio a Rebibbia?’). Sino a che si aprivano le porte e comparivano le braccia di Muccioli ad accogliere il nuovo arrivato. Non c’era posto? Lui diceva: metto un letto a castello, ed è fatta. Questa politica lo portò ad ‘aprire troppo’ e a dover delegare persone incompetenti a gestire ragazzi così problematici.
Alla fine degli anni ottanta, il 66% dei circa 2000 giovani ospitati era positivo all’HIV, il che significò anche la presenza di molti ammalati di AIDS, per cui Muccioli lottò per avere, e ci riuscì, un centro medico destinato.
Nel processo dell’84, dove fu accusato di sequestro di persona e maltrattamenti, dopo una condanna a 18 mesi in primo grado, fu assolto con formula piena in appello, assoluzione poi confermata in cassazione. Celebre la testimonianza in suo favore di Paolo Villaggio: Muccioli aveva sottratto alla droga il figlio Piero.
Nel 1994 subì un secondo processo. Era accaduto che un ospite della comunità, di nome Roberto Maranzano, fosse sparito e per tanto tempo di lui non si sapesse più nulla. Il suo corpo, fu poi ritrovato a 600 km di distanza, in una discarica napoletana, e l’autopsia rivelò che aveva subito un brutale pestaggio. Ad ucciderlo erano stati alcuni ragazzi che lavoravano nella porcilaia. In un primo momento, Muccioli affermò di non saperne niente. Successivamente confessò di averlo saputo, anche se in ritardo, e di non averlo denunciato per non ledere l’immagine della comunità e/o metterne a rischio la vita stessa. Anche stavolta i mass media e gran parte dell’opinione pubblica, lo massacrarono. La macchina del fango non gli fu risparmiata. Il suo ex autista, che in realtà lo ricattava chiedendo soldi, molti soldi, arrivò ad accusarlo di volerlo usare come killer, servendosi contro di lui di una vecchia cassetta dove aveva registrato sue frasi compromettenti (secondo il figlio Andrea cazzate, era un buontempone Muccioli e amava spararle…).
Fu però assolto dall’accusa di omicidio, anche se condannato ad otto mesi per favoreggiamento.
In pubblico si dimostrò sempre dignitoso e sicuro di sé, anche se i suoi occhi mal celavano la sua profonda amarezza. Dopo di allora le sue uscite si ridussero a niente, nemmeno a San Patrignano andava più. Cominciò a girare voce che fosse depresso e molto malato. Sino a che il 19 settembre 1995, aveva 61 anni, fu annunciata la sua morte, senza che venissero precisate le cause. L’omone ‘con uno sguardo che sembrava trapassare l’aria’ (Franco Cantelli) se ne andò, lasciando migliaia di orfani.
Probabile che avesse contratto l’AIDS nella stessa comunità.
Chiaramente, nemmeno la sua malattia e morte, frenarono le male lingue, e in un feroce assurdo scavare, venne fuori anche l’ipotesi che lui fosse omosessuale. Il figlio maggiore Andrea ebbe a dire che questo scavo veniva dalle fogne.
Dopo la sua morte, per sedici anni la comunità è seguita da Andrea. Alla fine di questi anni, quando ne ha 47 e mai nella sua vita ha fatto altro se non occuparsi di San Patrignano, dove si interessa precipuamente della parte che frutta di più, quella agroalimentare e dei vini, gli viene dato il benservito (parole sue), dalla Moratti e dal marito. La sua gestione non viene ritenuta buona, i conti sono in passivo e se non se ne va, i Moratti chiudono i rubinetti. Resta senza impiego anche la moglie, che ha lavorato anche lei in comunità per tanti anni, come avvocato. Vanno via con una liquidazione di 80000 euro, null’altro, e una vita da ricominciare. Le motivazioni? Incomprensioni e poi, secondo Andrea, anche qualche complotto e accuse infamanti, come fu per suo padre, come se il destino si ripetesse sempre uguale. La gestione di SanPa viene affidata a un comitato di garanti, sempre col sostegno dei Moratti. Affranto, Andrea lascia quel posto dove ha vissuto sin da bambino. Si chiude nel mutismo, parlerà solo otto anni dopo, affermando che anche alla madre, quando si è ritrovata vecchia e povera come tutti i pensionati ed ha chiesto aiuto alla comunità, lei che aveva donato a San Patrignano tutti i suoi beni, non hanno nemmeno risposto.
Nel 2019 Andrea si trova ad affrontare ancora una durissima prova: la morte di sua figlia diciottenne, per un’intossicazione da monossido di carbonio. L’anno dopo, nel marzo del 2020, quella della madre Antonietta, che nel corso degli anni rivestì, all’interno della comunità, un ruolo molto importante, per vari aspetti. Le premeva che ci fosse un clima simile a quello domestico, familiare. Non volle mai che si parlasse di mensa, ma piuttosto di sale da pranzo e si affannava col suo buon gusto e le sue premure a farle sembrare tali…
Nella lettera che il figlio Andrea le scrive e rende pubblica dopo la sua morte, dice:
‘Ciao mamma. Questa notte ti sei finalmente liberata di quell’involucro accartocciato e stanco che ti aveva privato del movimento, della parola, e infine della memoria e del pensiero. La condanna ricevuta, quella di una lunga catena di giornate vuote e solitarie, è ormai estinta, e per te il distacco da questa terra immagino sia semplice e lieve. Chissà, probabilmente stai già tendendo la mano verso il tuo Vi, prossima a quell’abbraccio grande e forte, ma dolcissimo, dentro il quale sembravi scomparire…’.
Riguardo alle accuse di violenze a SanPa, invece Andrea afferma:
‘Negli anni 80, il percorso dei tossicodipendenti era fortemente drammatico e metteva in ginocchio intere famiglie. Venivano da contesti violenti ed era inimmaginabile gestirli con la violenza. La conoscevano bene e l’avrebbero esercitata meglio di noi. Usavamo metodi chiari e forti, e ho visto mio padre dare molti schiaffoni. Ma l’ho visto anche minacciato con un coltellaccio piantato in pancia. Avevo 16 anni. Del resto se da noi ci fosse stata violenza, i tribunali di tutta Italia non ci avrebbero affidato tanti minori. Nella docuserie SanPa, ho ravvisato piuttosto lo stile di una fiction, con effetto ‘pulp’, caricando di ambiguità la figura del mio babbo. Tantissime le persone, in particolare genitori, che dopo averla vista, mi hanno chiamato per dirmi: ma in questa serie noi, i nostri figli, le nostre storie, la nostra liberazione, dove siamo?’

Attualmente, il centro ospita circa 2000 tossicodipendenti ed è un modello riconosciuto a livello internazionale, ma non accoglie più pazienti in crisi d’astinenza. La docuserie televisiva SanPa ideata da Gianluca Neri e andata recentemente in onda su Netflix, durata cinque ore, è stata seguita con successo da telespettatori di tutto il mondo, ma anche la comunità ne ha preso le distanze, reputando che dei tanti chiaroscuri, abbia messo in luce piuttosto le ombre.
E’ un parere che io condivido e condivide anche Red Ronnie, grande amico di Muccioli ed estimatore del suo operato, che ha dichiarato di avere apprezzato la parte documentaristica del lavoro, ma non la ricostruzione dello straordinario ruolo di Muccioli, e di avere, insieme al figlio Andrea accettato di farne parte per cercare con le loro testimonianze di attutire il danno…
Red Ronnie ha sempre frequentato SanPa, sin dall’inizio.
‘Era un luogo magico- dice-. Nel 1977 intervistai Enrico Maria Salerno e mi disse che era arrivato al punto di augurare la morte al figlio tossicodipendente, mentre un anno dopo lo ritrovò vivo e in buona salute a SanPa grazie a Muccioli’.
Concludo con le parole di Piero Villaggio, figlio di Paolo:
‘Una volta Muccioli mi diede uno schiaffone da staccarmi la testa. Mi lamentai e lui rispose: con voi tossici, quando siete fuori di senno, o si fa così o niente.
Ho amato e odiato Muccioli, ma devo a lui se sono vivo’.

Norma D'Alessio